Come la Merkel si sta comprando il made in Italy. Solo nel 2014, ai tedeschi 18 imprese tricolori. Ed è solo la punta dell'iceberg - HuffPost Italia

2022-09-17 02:59:20 By : Ms. Darlee Zou

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L’ultima preda sono state le motociclette MV Agusta, comprate da Mercedes a fine ottobre in una operazione fotocopia di quella che fecero due anni fa i cugini rivali di Audi (gruppo Volkswagen), acquisendo la mitica Ducati, la rossa di Borgo Panigale.

Con il passaggio di mano dell’azienda varesina diventano 18 le imprese tricolore comprate dai tedeschi nei primi 10 mesi del 2014. Le tredici censite dalla banca dati M&A di Kpmg al 30 settembre, più altre cinque perfezionate in queste settimane: oltre alla citata MV Agusta, la trevigiana Happy Fit appena acquisita da McFit, la catena tedesca del fitness leader in Europa; la bergamasca Clay Paky, campione mondiale delle luci usate nei grandi eventi, dai concerti di Lady Gaga alla notte degli Oscar, passata al colosso Osram; la bolognese Egs, specializzata in protesi digitali e 3D per odontoiatria, aerospaziale e automotive, rilevata dal gruppo “dentale” Heraeus Kulzer; e la multinazionale Wika, miscelatori di pressione, che ha inglobato la milanese Ettore Cella, da anni suo fornitore, specializzata in termostati per l’industria chimica e Oil&Gas.

Si tratta di un trend in forte crescita rispetto agli ultimi anni dove lo shopping è stato decisamente minore e a farla da padroni sono stati soprattutto francesi e cinesi.

La Germania a caccia delle nostre piccole imprese

Dall’inizio della crisi di Germania si parla quasi sempre in termini “macro” per il signoraggio politico-monetario sull’Europa, l’inflessibile rigorismo della cancelliera Merkel, lo spread e il bund bene rifugio o l’austerity; un po’ meno per gli investimenti nel Belpaese nonostante i rapporti bilaterali siano molto stretti e Berlino rappresenti tradizionalmente il nostro primo partner commerciale. (Per la serie storica e i numeri degli investimenti tedeschi si veda qui).

La Germania in apparenza si è tenuta più defilata nel grande gioco delle fusioni/acquisizioni in Italia concentrandosi su operazioni minori per un totale di 6 miliardi di investimenti contro i 45 dei francesi che hanno espugnato con sistematicità il nostro alimentare (Parmalat, Galbani, Eridania), il lusso (Bulgari, Gucci, Bottega Veneta, Pomellato, Loro Piana) e l’energia (Edison). Non solo. Lufthansa è uscita scornata dalla guerra nei cieli italiani contro i cugini di Air France e nel risiko bancario i tedeschi hanno lasciato campo libero alle varie Bnp-Paribas (azionista di controllo di Bnl) e Crédit Agricole (azionista di controllo di CariParma). Tolta Ras inglobata da Allianz e, appunto, Ducati, nell’ultimo decennio non si segnalano grandi deal targati Germania.

Eppure se scaviamo oltre le apparenze si scopre che l’espansionismo tedesco è tutt’altro che dormiente, piuttosto risponde a strategie diverse dalle classiche acquisizioni crossborder francesi, cinesi o americane. In termini di target Berlino punta direttamente al cuore pregiato del made in Italy, la piccola media impresa con buoni prodotti e tecnologia inserita nelle filiere internazionali che la crisi rende sempre più esposta alle operazioni ostili. Non a caso dal 2010 a oggi il 55% delle circa 50 operazioni “Germania su Italia” ha riguardato il settore “industrial” (fonte: Kpmg).

Per alcuni osservatori si tratta di un vera e propria invasione pianificata. Partiti come la Lega ne hanno fatto un’arma populista di battaglia politica. Ma non c’è bisogno di essere teorici del Grande Complotto (l’euro sarebbe nato su un patto di ferro franco-tedesco teso a deindustrializzare il nord Italia), per registrare quel che sta succedendo silenziosamente nei territori produttivi italiani, spesso raccontato da interlocutori insospettabili.

Il campo di gioco “truccato” lo disegna bene l’economista Giuseppe Russo, responsabile dell’Osservatorio italiano sulla filiera Automotive.

“Il principale squilibrio macroeconomico europeo è l’anomalo avanzo commerciale tedesco a tutto export (oltre 200 miliardi di euro di eccesso di produzione sui consumi) che la Germania non fa nulla per aggiustare.”

In altri termini, Berlino è la nostra Cina. Anzi peggio.

“Perché Pechino produce beni che noi non produciamo più, mentre la Germania produce esattamente quello che produciamo noi. Mancando il cambio, il trade surplus tedesco è per circa due terzi una lama piantata nel ventre dei francesi e degli italiani, che sono gli altri importanti paesi manifatturieri d’Europa.”

Il risultato è che si corre il rischio di “disarticolare i nostri distretti produttivi”, traduce un importante manager/imprenditore che più di establishment non si può.

“Le nostre imprese del Quarto capitalismo fanno concorrenza alle Mittelstand, le loro imprese famigliari, ma i criteri di Basilea II e III mettono in grande difficoltà le nostre banche.” E se saltano i criteri di credito in un paese bancocentrico come l’Italia, “salta a cascata il sistema delle Pmi. Le migliori ce le compreranno i tedeschi (o i cinesi)...”

Badate: “non si tratta di bloccare investimenti di cui il paese ha bisogno come il pane visto che riceviamo pochissimi Investimenti diretti in entrata (Ide), si tratta al contrario di non essere masochisti e proteggere il nostro giacimento industriale che ci ha permesso di restare a galla in questi anni.”

Girando per l’Italia questo fenomeno è già in corso. Lo scorso febbraio un’inchiesta del Financial Times sollevava il tema dello shopping strategico tedesco. Marcel Fratzscher, capo dell’Istituto economico DIW, parla apertamente di “Ide in saldo”. L'attenzione delle imprese tedesche si sta infatti “concentrando sulla cosiddetta zona di crisi, dove possono venire in aiuto delle medie imprese italiane che spesso devono lottare per ottenere l'accesso al credito...”

In quel frangente non si raccontavano casi concreti di cessioni perché c’era ancora poca evidenza ma girando per territori si capisce che il trend si sta consolidando. Saltano fuori le storie di chi ha venduto, sta per farlo o potrebbe farlo presto.

Per questo mentre il governo prova a salvare l'acciaio e quel poco che resta della grande impresa nazionale, dovrebbe preoccuparsi anche del “cherry picking” tedesco. “Senza una strategia industriale nazionale molte Pmi finiranno integrate in cicli di business all’estero, perderemo fiscalità, buoni posti di lavoro, competenze, catene di fornitura e know-how sapiente”, profetizzano dall’Unione industriale di Bologna.

Stiamo infatti parlando della crema della nostra piccola e media industria in settori dove siamo leader mondiali come la meccanica, l’automotive, la filiera chimico-plastica e l’automazione che fanno la gran parte del nostro avanzo primario nel manifatturiero (85 miliardi di euro nel 2013, al netto della bolletta energetica). Territori di caccia di questa silenziosa guerra di mercato: la Brianza, la Pedemontana lombardoveneta e la via Emilia.

Quel che si sottovaluta spesso è la complementarietà delle produzioni tedesche con quelle italiane. Dietro e oltre i colossi che noi non abbiamo (Siemens, Basf, Volkswagen, Daimler, Allianz, Henkel, Metro, E.ON), Berlino vede nelle nostre Pmi non solo clienti, fornitori o distributori rodati, ma anche delle rivali industriali e commerciali dall’auto alla meccanica, dalla farmaceutica all’alimentare all’elettronica.

La differenza è che le loro Middlestand possono godere di alcuni importanti vantaggi competitivi: dispongono di credito facile dalle loro banche molto più liquide delle nostre; si finanziano ai tassi minimi del bund o vengono finanziate in modo anomalo dalla KfW, la Cassa Depositi e Prestiti tedesca di proprietà del governo federale e dei lander, che presta denaro dei contribuenti senza che questo, grazie ad una regola contabile, rientri nel conteggio del debito pubblico. E soprattutto sfruttano un sistema del credito europeo che va plasmandosi sui desiderata tedeschi e dei paesi nordici. Lo si è visto anche dalla recente tornata di stress test, nonostante in Germania il 45% del sistema bancario resti pubblico e le Landersbanken, le banche regionali, protette dal governo e tenute lontano dalla vigilanza della Bce, abbiano in pancia oltre 600 miliardi di crediti deteriorati.

Tutto ciò non è una semplice disputa accademica, banca universale contro banca commerciale, ma fa tutta la differenza del caso. Lo sta dimostrando anche la crisi: in Europa è tutto in mano alle banche, dall’attività dei privati a quella degli stati. L’80% del credito arriva dagli sportelli.

E in Italia, si sa, chi controlla il credito controlla il sistema economico.

“Nella prima sono descritti i tassi a revoca, tipicamente gli scoperti di conto corrente”, spiega Fabio Bolognini, grande esperto di Pmi, curatore di uno dei più apprezzati blog finanziari d’Italia. “Nella seconda la differenza dei tassi applicati sul breve termine agli anticipi fatture per classe di fido e quindi per dimensione d’impresa.”

Come si vede i tassi sono saliti molto dal 2011 per poi stabilizzarsi nel 2014.

“Significa che le nostre imprese fino a 20-30 milioni di fatturato, a parità di dimensione e di qualità del credito, continuano a pagare il denaro mediamente 3 punti in più delle concorrenti tedesche.” Quanto possiamo andare avanti così?

Se aggiungiamo che le middlestand sono strutturalmente meno indebitate delle Pmi italiane e che lo stato tedesco paga i propri debiti regolarmente (a differenza del nostro), si capisce come la sindrome da cessione finisca per contagiare anche imprese solide tipo la lecchese Stelvio Kontek, specializzata nella produzione di connettori, passata a maggio al gruppo Wurth Elektronik. “Siamo una compagine societaria affiatata ma c’era il discorso delle sfide future, da affrontare, con il non trascurabile problema della concorrenza cui far fronte, molto forte in particolare proprio in Germania...”, ha motivato l’operazione il managing director, Luca Brigatti.

In molti casi i tedeschi, inglobando propri partner italiani, fornitori o distributori in difficoltà ma con buoni servizi da offrire, si comprano gli utili di intermediazione e chiudono la filiera. Molta componentistica meccanica l’hanno sempre comprata da noi. Adesso oltre ai prodotti “mid tech”, acquisiscono direttamente le aziende. È successo recentemente alla Rivolta Tip Top, una piccola azienda milanese (10 milioni di fatturato) che fa rulli e nastri trasportatori. Il fondatore ha venduto il 90% delle proprie quote al gruppo Stahlgruber. Era troppo esposto verso il suo fornitore tedesco...

“La carenza di credito è il vero demone che rende vulnerabile il nostro sistema d’impresa”, continua Bolognini. “Pensate alla scena di un imprenditore 60enne come ce ne sono tanti, con i figli sui trenta. Ha lavorato una vita, potrebbe andare ancora avanti ma comincia a preoccuparsi per il passaggio generazionale. Senza liquidità in cassa, anche se il business funziona, diventa difficile fare fronte a tutte le scadenze, le tasse, i fornitori, gli stipendi. Ecco che ti bussa alla porta un tedesco a cui indebitarsi non costa nulla, ti fa una valutazione industriale che si avvicina alle tue aspirazioni e che i fondi o le banche mai ti farebbero, e il gioco è fatto...”

Spesso la psicologia dei nostri imprenditori spiega meglio i fenomeni dello spread sui tassi di interesse...

Secondo un recente report dello studio legale e tributario Roedl & Partner, l’Italia è al secondo posto (19%) fra i paesi in cui le imprese familiari tedesche investono fuori dai confini della Germania, subito dopo gli Usa (24%) e prima di Francia e Polonia (16%). La maggior parte delle acquisizioni riguarda imprese con fatturati fra i 10 e i 100 milioni di euro. Ma soprattutto: “più che andare alla ricerca del mercato di sbocco italiano, cercano aziende con personale qualificato e prodotti, marchi o brevetti di eccellenza da commercializzare altrove”, dov’è più facile avere credito da banche straniere...

Solo nei settori meccanica e automotive, la banca dati dell’Unioncamere al 31 ottobre 2014 conta ben 152 imprese con azionista di riferimento tedesco. Un numero destinato a crescere come dimostra l’accelerazione di questi ultimi mesi:

2) Indirettamente con operazioni spurie: è il caso dei soldi che l’immancabile Kfw, in versione lupo cattivo travestito da nonna buona, presta da qualche tempo alle piccole imprese dei paesi mediterranei in difficoltà. Lo ha fatto con quelle spagnole, portoghesi e greche. Adesso lo farà con l’Italia, attraverso un accordo con Cassa Depositi e Prestiti.

3) Con operazioni mascherate da partnership strategiche dove i rapporti di forza sono tutti a vantaggio tedesco.

4) Pianificando lo sbarco in grande stile, come accadrà a marzo quando un plotone di 150 funzionari tedeschi si trasferirà per sette mesi in una struttura tra Busto Arsizio e Gallarate, adibita a quartier generale della missione Expo 2015. “Il nostro padiglione, uno dei più grandi dell’Esposizione Universale, proporrà ai visitatori uno sguardo sulle nuove soluzioni tedesche volte a garantire l’alimentazione del futuro”, promette il direttore, Erol Altunay, mettendo nel mirino la ricca filiera agro-alimentare italiana.

La notizia è passata sotto i radar ma è di quelle significative perché tutto si tiene in questa lunga guerra fredda di mercato e non capire la minaccia portata al centro nevralgico del nostro sistema industriale, o scambiarla per malinteso protezionismo, rischia di trasformarsi in un disastroso game over nazionale. A quel punto, celebrare il made in Italy e i fasti della “seconda manifattura d’Europa”, sarebbe solo vuota retorica.

Diventeremmo sì, un paese di camerieri...

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